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Trovare sé stessi in acqua

Il viaggio interiore di una giovane pallanuotista attraverso lo sport coaching.

Quando il talento incontra il peso delle aspettative

Mi chiamo Martina Roccaforte, sono una Mental Coach specializzata nello sport coaching e da anni accompagno atleti e allenatori nel viaggio più difficile e più affascinante: quello dentro se stessi, nel mondo del potenziale inespresso e della performance eccellente.

Ricordo perfettamente l’inizio di questo percorso. Davanti a me, una giovane atleta di 15 anni, con grandi capacità tecniche e una passione sincera per la pallanuoto.

Ma il suo corpo parlava chiaro: tensione, sguardo basso, un silenzio che diceva molto più di quanto lei riuscisse a mettere in parole. Aveva paura di sbagliare, di non essere all’altezza.

La pressione arrivava da più fronti: dai genitori, dall’allenatore, dalla squadra.

Il talento era lì, visibile. Ma qualcosa dentro si stava spegnendo.

La preparazione mentale: creare il proprio spazio sicuro

Abbiamo cominciato dal principio, da quella fase spesso trascurata nelle categorie giovanili: la preparazione alla gara.

L’obiettivo era uno solo, ma profondo: permetterle di arrivare in piscina sentendosi pronta, stabile, con la mente e il corpo allineati. Abbiamo creato insieme una routine pre-gara che fosse realmente sua.

Visualizzazioni guidate per immaginarsi in acqua con fiducia, esercizi di respirazione per regolare lo stato emotivo, e soprattutto l’uso degli ancoraggi, strumenti fondamentali nello sport coaching.

Frasi come “Io sono pronta”, abbinate a piccoli gesti simbolici, hanno cominciato a rappresentare per lei un luogo interno di sicurezza. Gesti semplici, ripetuti con costanza, capaci di richiamare emozioni positive nel momento giusto.

La tensione pre-partita ha iniziato a calare, lasciando spazio a una nuova forma di concentrazione: più calma, più centrata.

Sentirsi efficaci: il passaggio dalla prestazione al vissuto

Spesso, durante le prime sessioni, emergeva una sensazione difficile da ignorare: anche quando giocava bene, non si sentiva mai abbastanza. È qui che il lavoro si è spostato sul sentirsi efficaci, non solo “essere brave”.

Attraverso tecniche ed esercizi specifici – come la respirazione consapevole – e un ascolto corporeo attento ha iniziato a notare i segnali che arrivavano dal proprio corpo e a interpretare i propri stati interni senza giudizio.

Abbiamo lavorato con il concetto di Inner Game, silenziando le voci del giudizio esterno e rafforzando la fiducia nel proprio sentire.

L’ancoraggio emotivo, a questo punto, non era più solo un gesto: era un collegamento diretto con una parte di sé che aveva sempre saputo cosa fare. Bastava solo imparare ad ascoltarla.

Le relazioni che influenzano la performance

Un passaggio centrale è stato affrontare il modo in cui le relazioni esterne influenzavano la prestazione.

Il rapporto con l’allenatore era vissuto con forte tensione. La figura tecnica veniva percepita come giudicante, mai del tutto soddisfatta. Abbiamo lavorato sulla consapevolezza del ruolo dell’allenatore, separando il contenuto del messaggio dall’impatto emotivo.

Attraverso il diario delle interazioni, uno strumento semplice ma potentissimo, ha potuto osservare le dinamiche comunicative con maggiore lucidità e iniziare a definire nuovi modi di comunicare, più chiari, più rispettosi.

Anche il rapporto con la famiglia era carico di pressioni: la madre trasmetteva ansia, e il padre – con un ruolo dirigenziale all’interno della squadra – portava un sovraccarico emotivo difficile da gestire.

Abbiamo lavorato su confini e ruoli, allenando la comunicazione emotiva e ritrovare uno spazio in cui sentirsi figlia, prima ancora che atleta.

Questo ha creato una distanza sana tra lei e le aspettative altrui, e ha permesso di recuperare un po’ di leggerezza.

Il momento della gara: rimanere presenti

L’ultima fase del percorso è stata dedicata al momento più delicato: la gestione della performance.

Abbiamo spostato il focus da ciò che temeva a ciò che poteva controllare: il corpo, il respiro, le intenzioni. Abbiamo lavorato su strategie per restare nel presente, come il richiamo degli ancoraggi da attivare nei momenti di maggiore pressione.

È diventato il suo piccolo rituale, il modo per rientrare in sé quando tutto sembrava troppo.

E in acqua, qualcosa è cambiato. Non sempre tutto andava perfettamente, ma non era più quello il punto.

Ha iniziato a sorridere durante le partite. E per me, quello è stato il vero segnale: aveva trovato il suo spazio.

Lo sport coaching: un alleato nella crescita

Accompagnare un’adolescente in un percorso di sport coaching non significa solo aiutarla a giocare meglio. Significa creare uno spazio dove possa conoscersi, imparare a gestire la pressione, distinguere ciò che le appartiene da ciò che le viene imposto.

In un’età in cui tutto è in trasformazione, avere accanto una guida che non giudica ma accompagna può fare davvero la differenza.

Lo sport è una straordinaria scuola di vita, ma può diventare faticoso se non si imparano gli strumenti per viverlo con consapevolezza.

Per questo credo profondamente che il ruolo del mental coach sportivo sia una risorsa preziosa, soprattutto per i giovani. Non per proteggerli dal mondo, ma per aiutarli a starci dentro con più forza e più libertà.

“Ogni gara è un’occasione per riconoscere quanto vali, anche quando il risultato non lo dice. Crescere è trovare il proprio modo di stare in acqua… e nella vita.”

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